martedì 27 marzo 2012

Arrestato durante un funerale, il comune parte civile contro presunto estorsore del clan

(Pubblicato su Cronache di Napoli del 27 marzo 2012)
POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Il comune di Pozzuoli ha deciso di costituirsi parte civile nel procedimento a carico di Diego Scognamiglio, il 32enne arrestato nel luglio del 2011 con l'accusa di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, in particolare per l'avere agito a nome del clan Longobardi-Beneduce. Questa mattina si terrà l'udienza preliminare, nella quale si discuterà circa la richiesta di rinvio a giudizio del 32enne, avanzata dal pubblico ministero della Procura Antimafia di Napoli Gloria Sanseverino, il 24 febbraio scorso. Dopo l'associazione antiracket Sos Impresa guidata dal coordinatore nazionale Luigi Cuomo, anche il comune di Pozzuoli, dunque, ha avanzato la richiesta di costituzione di parte civile. L'incarico è stato dato all'avvocato Alessandro Motta. Diego Scognamiglio venne arrestato dopo aver cercato di estorcere denaro ad Antonio R., 46 anni, proprietario di due noti ristoranti di Pozzuoli. Secondo l'accusa, Diego Scognamilgio si sarebbe recato nella mattinata del 7 luglio 2011 in uno dei due ristoranti appartenenti ad Antonio R., chiedendo al direttore di sala di poter parlare “con Don Antonio”. Nel pomeriggio seguente Scognamiglio sarebbe ritornato nello stesso locale, affermando: “Ditegli a Don Antonio che siamo i compagni e che chiamasse i compagni di Marano...Sono venuto già due volte e la prossima volta che vengo è l'ultima, Perché vengo a chiudervi”. Il 32enne, poi, si sarebbe recato anche presso l'altro ristorante di famiglia, sempre chiedendo di poter parlare con Don Antonio. Il titolare, però, non si fece spaventare. Si recò direttamente dai carabinieri ai quali raccontò quanto gli era accaduto. I militari del comandante Roberto Spinola si attivarono immediatamente, facendo scattare le indagini. I carabinieri riuscirono in brevissimo tempo ad individuare l'estorsore. Durante un funerale, Diego Scognamiglio venne avvicinato da alcuni carabinieri che ,o invitarono a lasciare la chiesa, nel rione Toiano. I militari lo sottoposero a perquisizione personale, trovandogli addosso una pistola senza alcun porto d'armi. Si trattava di un'arma da guerra, semiautomatica e con la matricola abrasa: una Taurus calibro nove parabellum, modello Pt 99 Af caricata con quattro cartucce “luger”. Per Diego Scognamiglio scattò subito il fermo, poi convalidato dal gip in arresto. Da quel giorno il 32enne è rimasto in carcere, prima  Poggioreale e successivamente trasferito nella casa circondariale di Benevento. Questa mattina, dunque, si deciderà circa l'eventuale rinvio a giudizio. Determinante la testimonianza del titolare del ristorante e del direttore di sala che con il loro racconto hanno permesso l'arresto del presunto estorsore.

sabato 24 marzo 2012

Clan Polverino, è effetto a catena. Si pente anche Biagio Di Lanno

Biagio Di Lanno alias "la papera", 32 anni
(Pubblicato su Cronache di Napoli del 23 marzo 2012)

QUARTO (Alessandro Napolitano) – C'è un nuovo pentito nel clan Polverino. Si tratta di Biagio Di Lanno, 32 anni, alias “la papera”. L'uomo, arrestato nel giugno di un anno fa dopo più di un mese di latitanza, ha deciso di collaborare con lo Stato. L'ufficializzazione del nuovo “status” del 32enne è giunta ieri mattina, in occasione di un'udienza preliminare tenutasi all'interno dell'aula bunker di Poggioreale, davanti al gip Paola Russo. I pubblici ministeri titolari dell'inchiesta “Polvere”, culminata nel maggio 2011 con 40 arresti e che nel corso del tempo si è allargata fino a giungere ad un totale di 143 indagati, hanno depositato i verbali dei collaboratori di giustizia che dopo la loro cattura hanno optato per il pentimento. Oltre al ras del clan per ciò che riguardava gli affari illeciti di Quarto, vale a dire Roberto Perrone, 48 anni detto “Paperone”, ci sono anche i verbali di Gaetano D'Ausilio alias “Musullin”, 40 anni e di Biagio Di Lanno. Quest ultimo, dunque, è il terzo affiliato all'organizzazione camorristica ad aver scelto di diventare collaboratore di giustizia tra quelli arrestati nel maggio 2011. Il collegio difensivo – formato dagli avvocati Rosario Marsico, Antonio Abet, Marco Moscariello, Domenico Ducci e altri – ha chiesto un rinvio per poter prendere visione dei “nuovi” e copiosi verbali resi dai pentiti davanti ai magistrati dell'Antimafia. In aula si tornerà il prossimo 5 aprile. Tra meno di due settimane, dunque, gli avvocati difensori chiederanno, anche in forza delle eventuali mutate posizioni dei propri assistiti, di poter scegliere per questi ultimi il processo con rito ordinario o quello con rito abbreviato. In quest'ultimo caso, nel caso di condanna degli imputati, le pene saranno ridotte di un terzo. Arriva dunque ad un punto cruciale la vicenda giudiziaria che vede alla sbarra non solo presunti affiliati, capizona, trafficanti di droga, estorsori e usurai legati al clan Polverino, ma anche “colletti bianchi”, cioè persone con importanti incarichi politici che, secondo i pubblici ministeri, avrebbero avuto contatti troppo “ravvicinati” con l'organizzazione camorristica. Tra questi spicca il nome di Armando Chiaro, 36 anni, arrestato in piena campagna elettorale. La tornata era quella del 2011, per il rinnovo del consiglio comunale. Chiaro, consigliere uscente eletto nelle fila di Forza Italia (in realtà la precedente consiliatura era “caduta” nel febbraio dello stesso anno, dopo le dimissioni in massa di 16 consiglieri) puntava ad un nuovo mandato, candidandosi con il Popolo delle Libertà. Le manette per lui scattarono all'alba del 3 maggio, così come per altre 39 persone. Chiaro, nonostante la detenzione, fu votato ed eletto con 385 preferenze, prima che il prefetto di Napoli lo sospendesse. Altro candidato a finire in carcere fu Salvatore Camerlingo, cugino 27enne di Salvatore Liccardi, detto “pataniello”, poi catturato dai carabinieri a settembre.  Un nuovo capitolo, dunque, si apre ora con il pentimento di Biagio Di Lanno, uomo considerato tra gli “addetti ai lavori” per ciò che riguardava il traffico di stupefacenti per conto del clan Polverino.

giovedì 22 marzo 2012

Accoltella un carabiniere per sfuggire all'arresto, ladro di gasolio condannato a 2 anni e 2 mesi

(Pubblicato su Cronache di Napoli del 21 marzo 2012)

QUARTO (Alessandro Napolitano) – E' stato condannato a due anni e due mesi di reclusione il 25enne ucraino che nel tentativo di sfuggire all'arresto ha ferito con un coltello un carabiniere della tenenza di corso Italia. Si tratta di Tomashchuk  Vitaliy, cittadino senza fissa dimora. L'uomo è stato bloccato nella notte tra domenica lunedì, dopo una colluttazione con i militari i quali erano arrivati in via Spinelli, nei pressi di un deposito di gasolio. Il 25enne aveva appena rubato del carurante da uno dei mezzi parcheggiato all'interno. All'arrivo dei carabinieri, Tomashchuk  Vitaliy ha cercato di scappare, assieme a due complici probabilmente della stessa nazionalità. Questi ultimi hanno abbandonato l'auto con la quale stavano per portare via il bottino, una Bmw. Mentre gli altri due componenti della banda riuscivano a dileguarsi, il 25enne veniva raggiunto dai militari. Uno di loro ha rimediato una ferita alla mano destra. L'ucraino, infatti, aveva impugnato un coltello. Fortunatamente il militare ha riportato una ferita lieve, poi curata all'ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli, con una prognosi di sette giorni. Giudicato con rito direttissimo, Tomashchuk  Vitaliy ha rimediato 26 mesi di carcere. Le indagini, però, proseguono a tutto campo per cercare di individuare gli altri due ladri. Nell'auto abbandonata sono stati rinvenute sette taniche di gasolio contenenti complessivamente 175 litri di carburante. Dopo alcuni accertamenti è apparso chiaro che il gasolio era stato trafugato dal deposito pochi minuti prima. I militari avrebbero importanti elementi utili alla cattura dei due “fuggiaschi”, anche se per il momento c'è il massimo riserbo. Identico il discorso sulla serie di furti notturni che in queste ultime settimane si stanno verificando tra Bacoli e Monte di Procida. L'ultimo nel meno popoloso dei comuni flegrei, ai danni di un bar di corso Umberto, sempre nella notte tra domenica e lunedì, che segue l'altra serie di colpi messi a segno a Bacoli. Il bottino è sempre lo stesso, soprattutto grossi televisori a cristalli liquidi. Si sta cercando di stabilire se ad entrare in azione sia sempre la stessa banda di malviventi. Questi sarebbero dei veri e propri professionisti, essendo sempre riusciti a portare a termine il loro “lavoro” senza mai lasciare tracce e stando sempre ben attenti a proteggersi da eventuali telecamere di sicurezza. E' dalla metà di febbraio che a Bacoli e Monte di Procida si stanno ripetendo furti con una frequenza sconosciuta fino ad oggi da queste parti. Come detto l'ipotesi che si tratti degli stessi malviventi appare la più plausibile, ma fino ad ora le indagini non hanno potuto stabilire con certezza se i due comuni flegrei siano stati presi di mira da una sola banda specializzata in furti notturni.

sabato 17 marzo 2012

Guerra tra spacciatori, il "sistema" detta legge: auto in fiamme e tre arresti

(Pubblicato su Cronache di Napoli del 16 marzo 2012)

POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Gli hanno imposto di spacciare hashish solamente per conto del “sistema”, impedendogli di farlo in proprio. Per “convincerlo” non hanno esitato ad incendiargli l'auto di notte. E' quanto hanno ricostruito i carabinieri del Nucleo Operativo di Pozzuoli, assieme ai colleghi della stazione di Monterusciello. In carcere sono finite tre persone ritenute affiliate al clan Longobardi-Beneduce, in particolare all'ala quartese dell'organizzazione. Si tratta di Gennaro Carnevale, 22enne residente in via De Chirico, nel quartiere di Monterusciello; Luca Salvati, anch'egli di 22 anni, ma residente a Quarto in via De Gasperi, meglio nota come Rione 219 e Giulio  De Maria, 36enne, sempre di via De Gasperi. A far scattare le indagini è stata la stessa vittima dell'incendio dell'auto, un 32enne di Pozzuoli. L'uomo avrebbe voluto spacciare hashish senza dover corrispondere alcuna somma di denaro agli affiliati del clan. Stesso discorso per quanto riguardava il procacciamento dello stupefacente. Se non si fosse rivolto agli appartenenti al “sistema” non avrebbe potuto vendere nulla. Un permesso obbligatorio, dunque, senza il quale non avrebbe potuto operare. L'imposizione da parte degli affiliati all'ala quartese del clan sarebbe nata inizialmente con piccole intimidazioni verbali, fino ad arrivare all'attentato incendiario di martedì notte. Il pusher di Pozzuoli vide con i suoi occhi i tre appartenenti al sodalizio criminale mentre cercavano di appiccare le fiamme alla sue vettura. Per un po' ha dubitato sul da farsi: tacere dell'accaduto o raccontare tutto ai carabinieri, nonostante la sua attività illecita alla base dell'attentato. Alla fine il 32enne ha deciso per la prima ipotesi, recandosi in caserma e denunciare quanto subito. Il 32enne “ribelle” avrebbe quindi descritto con dovizia di particolari i tre che avevano appiccato le fiamme, fornendo dati utili alla loro identificazione. I carabinieri avevano però già intuito di chi si trattasse, facendo subito partire le indagini. Queste avrebbero portato nel giro di pochissimo tempo al fermo dei tre. I primi ad essere fermati sono stati i due 22enni, raggiunti dai militari nelle rispettive abitazioni di Monterusciello e di Quarto. I carabinieri, però, non erano riusciti a trovare a casa sua Giulio De Maria. Sapendo però che per lui oramai le cose si stavano per mettere malissimo e avendo saputo del fermo degli altri due affiliati al clan, si è convinto a costituirsi, recandosi spontaneamente presso la tenenza dei carabinieri di Quarto, in corso Italia. Qui si è lasciato ammanettare, raggiungendo dopo poco gli altri due “colleghi”, nel carcere napoletano di Poggioreale. Nonostante, dunque, arresti continui, processi e sentenze di condanna, sembra che il “sistema” legato ai Longobardi-Beneduce sia ancora attivo, soprattutto per ciò che riguarda lo spaccio di stupefacenti. Per il clan l'attività non può avere rivali né concorrenza. Chi voglia guadagnare con la droga deve prima godere dell'assenso della camorra locale. 

venerdì 16 marzo 2012

Il fratello del boss Longobardi torna in libertà. Ora è un sorvegliato speciale


(Pubblicato su Cronache di Napoli del 16 marzo 2012) 

POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Ferdinando Longobardo, fratello del boss Gennaro, non è più detenuto. Dopo aver scontato quasi nove anni di carcere per associazione di stampo mafioso finalizzata alle estorsioni, il 52enne è tornato a Pozzuoli. Il 15 luglio del 2008, al termine del processo d'Appello, Ferdinando Longobardo venne condannato ad 11 anni di reclusione, ricevendo quindi uno “sconto” di 12 mesi rispetto a quanto avevano deciso i giudici nel primo grado di giustizia, il 12 dicembre del 2006. Era il procedimento a carico di 20 imputati, tra cui lo stesso boss che venne condannato a 13 anni. L'accusa principale in quel processo era quella riguardante le estorsioni all'interno del mercato ittico all'ingrosso, compiute per anni dagli uomini del clan. Il 13 maggio del 2003 ben 37 ordinanze di custodia cautelare vennero eseguite dai carabinieri. Uno smacco per l'organizzazione criminale che però, di lì a poco, avrebbe ricevuto nuova “linfa”, soprattutto grazie all'ascesa della famiglia Pagliuca che di Longobardi divenne il braccio destro. Nove anni dopo il suo arresto, dunque, Ferdinando Longobardo (e non Longobardi come il fratello Gennaro, un “errore” in fase di iscrizione anagrafica) è tornato in libertà. Ora dovrà scontare un periodo di sorveglianza speciale, con obbligo di presentazione e firma oltre a dover sottostare a severi vincoli di orario per quanto riguarda la sua permanenza tra le mura di casa, nel rione Toiano. Secondo molti pentiti del clan Longobardi-Beneduce, il fratello del boss avrebbe avuto a lungo un ruolo importantissimo all'interno dell'organizzazione, soprattutto durante i periodi di latitanza del “capo” o di detenzione. Sarebbe stato il principale “addetto” alle estorsioni a favore del clan, colui che riscuoteva i soldi dai  suoi sodali. Ha raccontato ad esempio Antonio Perrotta, collaboratore di giustizia, che quando il clan doveva riscuotere denaro da una ditta di Monterusciello, ben 12 milioni di lire durante le “canoniche” rate di Natale, Pasqua e ferragosto, gli estorsori dovevano consegnare a Ferdinando Longobardo i proventi "ovviamente quando Gennaro era in prigione, oppure latitante". Ferdinando Longobardo avrebbe anche seguito da vicino le fasi estorsive degli affiliati, tanto che lo stesso Perrotta ha detto: "In un'occasione[...]viaggiavamo a bordo di una Fiat Uno. Ricordo di una volta [...]su una macchina rubata [...] si trattava di una Fiat Uno; nella circostanza eravamo seguiti da Ferdinando Longobardo, che viaggiava con una Yaris regolare, cioè non rubata. Ci recammo in un capannone, nella zona dietro alla Montagna Spaccata. Ricordo che c'erano delle telecamere e un cancello elettrico[...]avevamo indossato i cappucci. Approfittando dell'uscita di un furgoncino, bloccammo la cellula fotoelettrica del cancello ed entrammo".  Lo stesso pentito, poi, fa riferimento a Longobardo anche per ciò che riguarda i guadagni derivanti dallo spaccio di droga. Riferendosi ad un affiliato ha raccontato: "So che per la vendita della droga prendeva la sostanza da Perillo Gennaro (ucciso in un agguato il 5 febbraio del 2008, ndr) e portava poi i soldi a Ferdinando Longobardo”. 

giovedì 15 marzo 2012

Vendette in famiglia: sperona l'auto della nipote, il fratello gli devasta l'ufficio

(Pubblicato su Cronache di Napoli del 15 marzo 2012)

POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Una vendetta consumata per lavarne un'altra, il tutto tra consanguinei. E' finita con tre arresti l'operazione dei carabinieri della stazione di Licola seguita a quello che poteva sembrare, in un primo momento, un incidente stradale, con due donne costrette a ricorrere alle cure dei medici. Con varie accuse sono finiti agli arresti domiciliari due fratelli, Salvatore e Pasquale Capuano, rispettivamente di 40 e 53 anni ed entrambi pregiudicati oltre a Biagio Ciccarelli, di 28 anni. Sono tutti residenti a Giugliano. La vicenda ha avuto inizio con il ribaltamento di una Smart, martedì pomeriggio attorno alle 18, a Cuma nei pressi del depuratore. Al volante della city car c'era una donna di 25 anni, figlia di Pasquale Capuano. Al suo fianco era seduta una sua amica, 31enne, sorella di Biagio Ciccarelli. Dopo essere riuscite a lasciare la vettura da sole, raggiungevano il vicino ospedale Santa Maria delle Grazie. Entrambe riportavano ferite giudicate guaribili in cinque giorni. A far scattare i carabinieri, però, sarebbe stato il successivo racconto delle due donne uscite quasi illese dalla Smart. La 25enne e la sua amica, hanno raccontato ai loro familiari la dinamica dell'incidente. Ad averle travolte con il suo camion sarebbe stato, secondo quanto riferito dalle due, Salvatore Capuano. L'uomo, infatti, da tempo avrebbe avuto rapporti sempre più difficili con suo fratello Pasquale (con il quale condivide la sua attività di autotrasportatore) oltre che per diverbi familiari sempre più accesi. Salvatore Capuano, dunque, vedendosi davanti la Smart con al volante la figlia di suo fratello, lungo via Domitiana, non avrebbe esitato a superarla e a speronarla, tanto da provocare il ribaltamento dell'auto. Dopo il racconto dei fatti ai propri familiari, per Pasquale Capuano, padre della 25enne e Biagio Ciccarelli, parente dell'altra donna rimasta ferita nell'incidente, è scattata la fame di vendetta. I due si sono recati presso l'azienda di Salvatore Capuano, in via delle Colmate, sempre a Licola. Muniti di un cric i due sono penetrati negli uffici, iniziando a distruggere mobili, scrivanie e persino i personal computer in uso ai dipendenti. Come se non bastasse a questi ultimi sono arrivate anche minacce di morte. I lavoratori, a quel punto, hanno chiamato i carabinieri. Quando i militari sono arrivati nell'azienda di Salvatore Capuano, hanno trovato i due ancora sul posto, bloccandoli immediatamente. Dopo circa due ore, gli stessi carabinieri fermavano anche Salvatore Capuano, colui che nel pomeriggio aveva speronato la Smart con le due donne all'interno. Tutti si trovano al momento agli arresti domiciliari, in attesa di essere sottoposti al processo che si celebrerà con rito direttissimo. Una vicenda assurda, violenta e nata all'interno della stessa famiglia, ma che poteva avere addirittura conseguenze maggiori nel caso, ad esempio, le due donne avessero riportato ferite più gravi. 

mercoledì 14 marzo 2012

Processo Beneduce, ascoltato il pentito Alessandro Lucignano

Gaetano Beneduce 
(Pubblicato su Cronache di Napoli del 13 marzo 2012)

POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Va avanti a “colpi” di dichiarazioni da parte dei pentiti il processo a carico del presunto boss Gaetano Beneduce (difeso dall'avvocato Domenico De Rosa) e altri dieci affiliati all'omonimo clan. Dopo quelle rese dalla testimone di giustizia Monica Scotto Pagliara (moglie di Giampaolo Villano ed ex amante dello stesso Beneduce) è toccato ad Alessandro Lucignano, “storico” collaboratore di giustizia una volta integrato pienamente all'interno dell'organizzazione criminale operante a Pozzuoli, conosciuto anche come “Canè”. Lucignano venne arrestato assieme al boss Gennaro Longobardi il 13 maggio del 2003, nell'ambito dell'inchiesta sulle tangenti al mercato ittico all'ingrosso. Quasi due anni dopo decise di passare dalla parte dello Stato. Lucignano è un affiliato di lunga data del clan, tanto che prima dell'ascesa dei Longobardi-Beneduce era un fidatissimo dei Sebastiano-Bellofiore, i due boss poi uccisi nel 1997 nel rione Toiano. Tra gli imputati al processo che vede alla sbarra Beneduce, c'è anche Villano, l'unico ad essere accusato di diversi fatti di sangue. Su uno di questi episodi, il grave ferimento di Antonio Mele, detto 'o campagnuolo, avvenuto nel 1993, Alessandro Lucignano aveva già dichiarato: “Il Villano ha partecipato all’agguato a Mele Antonio detto “il campagnolo” che avvenne fuori alla Sezione del Comune che si trova a Toiano; in effetti il Mele svolgeva le sue attività illecite sia al Toiano che a Monteruscello e quelli di Toiano, per paura che lui facesse delle spiate a Monteruscello, decisero questo agguato; il Mele è fratello di Mele Gennaro, che qualche anno dopo fu ucciso in Monteruscello". Una descrizione dei fatti che ha permesso l'imputazione di Villano per tentato omicidio, quasi venti anni dopo la sparatoria. Estorsore al mercato ittico, ma soprattutto spacciatore di cocaina. Dopo anni di malaffare Lucignano, decidendo di collaborare con la giustizia, ha quindi raccontato di episodi rimasti per anni a carico di ignoti. Tra gli imputati figura Giuseppe Del Giudice, detto “Peppe dell'assicurazione”, accusato di essere un colletto bianco del clan. Di Lui Lucignano ha detto: "Si tratta di un assicuratore di Pozzuoli al quale si rivolgevano gli appartenenti al sistema per fare le polizze di assicurazione delle macchine; ricordo che questo accade da molti anni, fin da quando c’erano Sebastiano e Bellofiore ed accade ancora oggi, infatti anche durante il periodo in cui sono stato detenuto mia moglie ha assicurato la nostra macchina, una Hyunday Atos con il Del Giudice, in particolare mia moglie ha dato i documenti della macchina ad Avallone Leonardo che le ha poi portato la polizza in cambio del pagamento di 400 €. Ricordo che in passato ho anche portato della cocaina al Del Giudice e lui regolava questi conti direttamente con Mimì e Lelluccio. In alcune occasioni ho visto il Del Giudice andare anche a pranzo o a cena con alcuni soggetti appartenenti al sistema". Lucignano, dunque, ha confermato in dibattimento le sue dichiarazioni sugli attuali imputati nel secondo dei tre processi contro il clan. Il primo si è concluso il 21 settembre scorso con 47 condanne, tre delle quali a 20 anni di detenzione. 

sabato 10 marzo 2012

Clan Polverino, si pente un altro affiliato. Gaetano D'Ausilio pronto a rivelare nuovi segreti

(Pubblicato su Cronache di Napoli del 9 marzo 2012) 


QUARTO 
(Alessandro Napolitano) – A svelare nuovi retroscena e segreti del clan Polverino non c'è solo Roberto Perrone, dallo scorso luglio collaboratore di giustizia ed ex “ras” dell'organizzazione. Tra chi ha deciso di passare dalla parte dello Stato c'è anche un altro affiliato al clan, Gaetano D'Ausilio, 40 anni, detto “musullin”. L'uomo, dunque, è andato ad allungare la lista di chi, una volta appartenente a pieno titolo all'organizzazione criminale, si è poi pentito, svelando particolari sugli affari sporchi del clan. Una lista già composta da Giovanni Piana, Massimo Tipaldi, Domenico Verde e dall'estate scorsa anche da Roberto Perrone e Gaetano D'Ausilio. Nato a Quarto nel 1971, “musullin” sarebbe un affiliato “storico” del clan. Nel maggio di un anno fa è finito in carcere con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti e concorso in tentata estorsione aggravata. Gaetano D'Ausilio verrà riconosciuto da alcuni imprenditori vittime del clan Polverino i quali lo indicheranno come “un delinquente ben conosciuto in zona”. Secondo i magistrati dell'Antimafia, Gaetano D'Ausilio "viene certamente identificato a seguito dei plurimi dialoghi intercettati a bordo delle vetture in uso a Pataniello (Salvatore Liccardi, ndr) poiché la sua voce è ben nota ai Carabinieri per pregresse attività d’intercettazione. Nel corso delle “ambientali”, inoltre, il D'Ausilio viene indicato col proprio nome di battesimo". In una delle tante lettere che Roberto Perrone scriveva dal carcere durante la sua detenzione, quella terminata nel 2008 e durata 8 anni, questi chiede a Salvatore Liccardi come mai lo stesso D'Ausilio non avesse ancora risposto ad una precedente missiva, inviata all'indirizzo della sua fidanzata. Un escamotage noto agli inquirenti, quello di inviare lettere ad indirizzi diversi da quelli dei destinatari reali o con mittenti che in realtà non corrispondono alla realtà. Avviene anche nel caso dei messaggi epistolari tra Perrone e D'Ausilio. Quest ultimo, facendo partire una lettera dall'indirizzo della fidanzata, chiama Perrone “carissimo zione” raccontando poi di essere in compagnia di Salvatore Liccardi e, come dicono i magistrati, "scherzando afferma che quest’ultimo detta e lui scrive". Altro nome di battaglia di Gaetano D'Ausilio è "il maligno". E' così che lo chiama Liccardi in una delle tantissime lettere finite poi nelle mani degli inquirenti. In una di queste ed indirizzata a Perrone, Pataniello scrive: "al riguardo del malignio stai senza pensiero lo messo x la strada buona alla fine e bravo. Anche gigino sta andando x la strada giusta e i consigli che li sto dando ne fa tesoro". Il “gigino” sarebbe Luigi Carandente Tartaglia, detto “giggin 'a guerr”, arrestato assieme a Liccardi nel settembre scorso. Era il suo vivandiere durante la latitanza. Un uomo perfettamente inserito nel clan, dunque ed ora pronto a raccontare ai magistrati le “sue” verità.  

giovedì 8 marzo 2012

"E' finita". Il boss Polverino in manette. Tutti i particolari dell'operazione


(Pubblicato su Cronache di Napoli del 8marzo 2012)



Guarda il video della cattura

Il boss Giuseppe Polverino in manette. Era latitante dal 2006
di Alessandro Napolitano

“E' finita”. Giuseppe Polverino, l'introvabile boss che per sei anni era riuscito a sfuggire all'arresto, non ha pronunciato altro una volta aver capito che per lui non c'era più scampo. Attorniato da decine tra carabinieri e uomini della Guardia Civil spagnola, si è lasciato ammanettare. Così come l'uomo che era con lui, Raffaele Vallefuoco, anch'egli ricercato da tempo. Cala il sipario, dunque, sulla lunga latitanza di Peppe 'o barone, così come nell'ambiente criminale era conosciuto. L'importantissimo arresto è avvenuto a Jerez de la Frontera, in Spagna. Era qui che il boss si stava nascondendo assieme  Vallefuoco. Inutile mostrare ai carabinieri carte d'identità false. I militari non avevano dubbi. Si trattava della “primula rossa” del clan che porta il suo nome. Uscito dalla sua abitazione, all'interno di un residence di lusso, Polverino si stava incamminando assieme a Raffaele Vallefuoco quando, forse insospettito dalla presenza di molti visi sconosciuti, ha iniziato ad allungare il passo, fino ad accennare ad una timida corsa. Un tentativo di fuga inutile. Attorno a lui solo carabinieri e uomini delle Guardia Civil. Ha mostrato una carta d'identità, come ha fatto Vallefuoco. Non è servito a molto. Per chi lo stava braccando da tempo era solo un escamotage per sfuggire a controlli ordinari. Non certo di quelli del piccolo esercito che oramai gli soffiava sul collo. Non appena i carabinieri lo hanno invitato a salire su una delle tante auto civetta, sicuro che di lì a poco sarebbe scattato l'incontrovertibile esame delle impronte digitali, si è rassegnato, fino a pronunciare le laconiche parole oramai da ex boss della camorra: “E' finita”. Scena muta, invece, per Raffaele Vallefuoco. Rispetto per il boss, forse. O anche una percezione della realtà che ancora doveva diventare nitida. Per entrambi la lunga vita da latitanti d'oro, tra agi e ricchezze, sarebbe appartenuta da quel momento in poi solo al passato. Come da prassi è scattata la perquisizione nell'abitazione utilizzata da Polverino come covo. I militari hanno trovato ciò che confermerebbe la vera natura dell'uomo Polverino, un criminale astuto, intelligente e che ben sapeva come sfuggire ad intercettazioni ambientali e telefoniche: un “pizzino”. Un foglio di carta scritto a mano, con inchiostro nero. Un'indicazione arrivata dall'Italia e riguardante un affare da concludere, nonché alcune informazioni su uno degli affiliati al clan. Proprio come usano fare i mafiosi, Giuseppe Polverino utilizzava “pizzini” di carta per comunicare con i suoi uomini a migliaia di chilometri. Qualcuno deve averglielo recapitato di recente. Non ne hanno dubbi gli inquirenti. D'altronde il boss era proprio in procinto di organizzare un altro affare quando è stato arrestato. Un affare ovviamente legato al traffico di hashish, dalla Spagna all'Italia. Un carico di droga che probabilmente non arriverà mai a destinazione. In Italia, invece arriveranno nei prossimi giorni i due finiti in manette dopo anni. Raffaele Vallefuoco, 38 anni, detto 'o ricchione, avrebbe continuato a svolgere al fianco del boss un ruolo determinate per quanto riguarda il traffico internazionale di hashish. Dopo l'arresto di Domenico Verde (poi diventato collaboratore di giustizia) nel dicembre del 2009, sarebbe stato Vallefuoco il più fidato collaboratore di Peppe 'o barone. Era lui a mantenere la contabilità dei traffici, secondo lo stesso pentito Verde, nonchè  organizzatore delle così dette "puntate". Il sistema lo descrive il pentito: "La somma versata da ciascuno viene scritta su un foglio di carta che viene custodito da Vallefuoco Raffaele fino a quando la droga arriva in Italia". 

lunedì 5 marzo 2012

Pregiudicato e in odore di camorra, ecco chi gestiva la realizzazione del centro commerciale


Il cantiere del centro commerciale nel 2007
(Pubblicato su Cronache di Napoli del 4 marzo 2012)

QUARTO (Alessandro Napolitano) – Un affare da milioni di euro, per la realizzazione di uno dei più grandi centri commerciali della provincia, affidato ad un pregiudicato con precedenti di polizia e sospettato di avere legami con i clan della camorra. Ancora una volta è l'affaire Quarto Nuovo a tenere banco tra le tante vicende giudiziarie che hanno visto il nome di Quarto finire nei documenti della Direzione  Distrettuale Antimafia di Napoli. Il soggetto a cui oltre dieci anni fa venne affidato il compito di “chiudere” l'affare, partendo dall'acquisto di un terreno fino ad arrivare all'ottenimento di tutte le licenze necessarie alla realizzazione del centro commerciale, è lo stesso il cui nome era già stato tirato in ballo in Senato, nel 2004 e nel 2006. Il comune di Quarto sembra non essersi curato della fedina penale dell'uomo. Si tratta di uno stabiese. Di lui, all'Antimafia partenopea, si dice: "è un grosso imprenditore di Castellammare di Stabia con precedenti penali e di polizia, destinatario di proposta per l'applicazione di misure di prevenzione personale e patrimoniali ex legge 575/65 perché ritenuto organicamente collegato al clan camorristico Alfieri-Cesarano[...]è stato condannato nell'anno 2005 dalla I Sezione penale del tribunale di Torre Annunziata (Na) a tre anni di reclusione per i reati di cui agli articoli 110 e 629 del codice penale, comma 2 (reato di estorsione, ndr) con l'aggravante all'articolo 7 della legge 203/1991 per aver favorito interessi del clan camorristico Alfieri Cesarano nella vicenda della costruzione del Centro Commerciale “Città Mercato” di Pompei". Un uomo già addentro agli affari riguardanti grossi centri commerciali e che avrebbe avuto anche l'incarico di realizzare quello di Quarto. Secondo i magistrati dell'Antimafia, dunque, il soggetto sarebbe stato a capo della società "che acquistava i terreni dalla Elleffe srl (che secondo i pm sarebbe stata creata ad hoc da Castrese Paragliola e Nicola Imbriani attraverso due prestanomi, ndr) alla condizione che l’intera area sulla quale doveva sorgere il Megastore avesse la destinazione utile per l’edificazione della struttura. Veto che direttamente [...] aveva posto quale requisito indispensabile prima dell’acquisto, che puntualmente conseguiva grazie alle capacità di condizionamento della Elleffe nell’attività amministrativa Comunale". Ebbene, a questa persona è stata data carta bianca per un affare così importante. E al comune di Quarto nessuno sembrava conoscere le sue vicende giudiziarie.  

sabato 3 marzo 2012

Il pentito Perrone e le sue "verità". C'è anche l'affare Ipercoop?


Il cantiere del centro commerciale, nel 2007
(Pubblicato su Cronache di Napoli del 3 marzo 2012)

QUARTO (Alessandro Napolitano) – Quando il 23 marzo prossimo le parti si riuniranno in tribunale per discutere circa l'eventuale “ingresso” delle dichiarazioni del pentito Roberto Perrone, si potrà sapere se tra i segreti del clan Polverino svelati ai magistrati dell'Antimafia possano esserci particolari riguardanti l'affare dell'ipermercato di via Masullo. Un carpentiere ed un autista di bus pubblici alla guida di una società che nella sue breve vita ha fatto registrare una sola attività, quella della compravendita di oltre 120mila metri quadrati di terreno sul quale verrà poi realizzato il centro commerciale Quarto Nuovo. E’ una delle tante anomalie che riguardano l’affare del complesso commerciale aperto nel 2008 a Quarto e sui cui la magistratura fece luce già due anni prima. Ben 36 gli avvisi di garanzia inviati a consiglieri comunali, tecnici impiegati preso l’Utc, professionisti del settore edile ed imprenditori. Le accuse a vario titolo erano di corruzione, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, falso ideologico, tutte aggravate dal favoreggiamento alla criminalità organizzata. L’organizzazione criminale era quella che fa capo al boss Giuseppe Polverino. A Quarto il clan aveva un suo luogotenente, secondo l’Antimafia: Roberto Perrone, oggi collaboratore di giustizia. A sua volta lo stesso Perrone avrebbe avuto tra i suoi fidatissimi il presidente del Quarto Calcio, Castrese Paragliola e l’imprenditore edile Nicola Imbriani.  Secondo gli atti dell’inchiesta dell’Antimafia denominata “Polvere”, Perrone, Paragliola e Imbriani risultano “un’unica entità, espressione della volontà imprenditoriale e delle mire espansionistiche del clan Polverino, che in tal modo ricicla agevolmente decine di milioni di euro accumulati grazie agli illeciti traffici". Secondo quanto scrivono gli inquirenti “si arguiva che l’intero affare del Centro Commerciale non poteva restare indifferente alle consorterie camorristiche operanti su quel territorio, in particolare il clan Polverino che, dalla concretizzazione dell’opera avrebbe ricavato ingenti fortune”. Tra queste fortune anche quella della società, la Elleffe, che in 15 soli giorni moltiplicò per sette i suoi guadagni, con l’acquisto del terreno su cui sarebbe stato costruito il centro commerciale a 1.342.773,50 euro per poi rivenderlo a 10.875.000. Come sottolinenano i magistrati dell’Antimafia, poi, l’allora amministrazione comunale “poco dopo l’acquisto dei terreni da parte della Elleffe, stabiliva il cambio di destinazione dell’area (PIP) nella quale era ricompreso proprio il terreno in questione, che si trasformava, quindi, in area a uso commerciale”. 

giovedì 1 marzo 2012

Falsi permessi di soggiorno, due anni di condanna per il tipografo


Uno dei falsi  permessi. Impossibile distinguerlo da un originale

(Pubblicato su Croanche di Napoli del 26 febbraio 2012) 

POZZUOLI (Alessandro Napolitano) – Due anni di detenzione con pena sospesa. E' quanto si legge nella sentenza di condanna riguardante Alessandro Monastero, 33 anni, il tipografo di Pozzuoli finito in manette lo scorso novembre ed accusato di avere stampato falsi permessi di soggiorno. Le altre due persone finite nella stessa inchiesta, Giovanni Pullo, 35 anni e un 58enne di Castelvolturno, F.R., attendono l'esito del processo a loro carico che si sta celebrando con il rito ordinario. Monastero, invece, ha optato per il rito abbreviato. Il 33enne, subito dopo il fermo della Guardia di Finanza, venne sottoposto agli arresti domiciliari. Una misura cautelare poi terminata nei giorni scorsi, in occasione della sentenza del Tribunale di Napoli. Ora, quindi, il tipografo è nuovamente libero. Le indagini scattarono quando le fiamme gialle di Pozzuoli, guidate dal capitano Michele Ciarla, fermarono per un controllo un cittadino extracomunitario, a Castelvolturno. L'uomo aveva con sé un permesso di soggiorno all'apparenza normale. Anzi, dalla banca dati risultava perfettamente in regola. L'extracomunitario, però, iniziò ad avere più di un dubbio circa la sua data di nascita. Per i finanzieri c'era qualcosa che non tornava. Interrogato a lungo, l'uomo fa intendere che il permesso di soggiorni gli era stato venduto da una persona di cui non conosceva il nome, al prezzo di ben 5mila euro. Le intuizioni e le indagini di Ciarla e dei suoi uomini portarono all'individuazione della tipografia di Pozzuoli come possibile “base” nella quale venivano stampati con precisione estrema i falsi permessi di soggiorno. Settimane di appostamenti permisero alla Guardia di Finanza di chiudere il cerchio. Per le fiamme gialle non c'erano più dubbi. Era in quella tipografia che i falsi documenti venivano riprodotti. Le indagini, però, portarono anche nel comune del casertano nel quale fu fermato l'extracomunitario e destinazione per migliaia di irregolari in cerca di lavoro. Il blitz scattava intorno alle 18 del 19 novembre scorso. Nella tipografia di Alessandro Monastero vennero ritrovati cliché e vernici speciali sensibili ai raggi ultravioletti, materiale quasi impossibile da trovare in commercio. Durante la perquisizione spuntarono fuori 1282 permessi già compilati, mentre altri 2406 erano ancora in fase embrionale. Secondo la Guardia di Finanza era arrivata una commessa da ben 20mila permessi di soggiorno che, se venduti a 5mila euro l'uno, avrebbero potuto fruttare ben 100 milioni di euro. A finire in manette anche Giovanni Pullo, dipendente dell'ufficio postale di via Terracciano, nella cui abitazione vennero trovate 140  marche da bollo contraffatte oltre a 35 chilogrammi di posta mai recapitata.